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sabato 29 settembre 2007

Il sogno di un incontro(Finale)



Ripresero a camminare dondolandosi,abbracciati in un incastro perfetto,il vento gli andava incontro facendo volare le foglie dei platani,bruciate dall'estate appena trascorsa.Lui aveva ancora le chiavi dello studio di un suo vecchio amico pittore,un folle visionario israelita,perso in giro per il mondo;amava rifugiarsi tra i colori e le tele con i lavori mai finiti,si perdeva fra gli odori delle tempere,i colori gli davano la misura esatta del mondo;era la sua tana,ed era sicuro che là il suo male non lo potesse scovare tanto facilmente,cullandosi così nell'illusione di ingannare il tempo,che per lui era divenuto uno spietato dittatore.Nello studio poche cose essenziali,un tavolo due sedie un tatami e qualche candelabro,era tutto l'arredamento,per lasciare più spazio possibile all'arte e alla creatività che emergeva dappertutto,lampade,piccoli utensili uno specchio enorme con la cornice di legno che lui stesso aveva intagliato,faceva da spalliera a quel duro letto spartano,c'erano anche sue sculture,amava scambiare i suoi lavori sostenendo che in questo modo ognuno possedeva un pezzo della vita di un altro.
Lei sentiva la natura di quel posto e l'effetto straordinario che aveva su quell'uomo beffato dal destino,lui si muoveva come un felino,inebriato da una rinnovata vitalità,sembrava che anche il suo corpo si ampliasse,come se il male nulla poteva contro quella divina energia creativa di cui lo studio era pregno;il silenzio tra loro era costante,come due figli di un Dio minore non avevano bisogno di parlare,in quel magico momento si respiravano,tutto il loro corpo era divenuto verbo,erano talmente protesi l un l'altra che i loro odori si erano intrecciati,amalgamati all'aroma di quel posto in una fragranza sovranaturale.
Lui accese tre candele ed una piccola piramide di incenso tibetano,ricordo di uno dei suoi ultimi viaggi,mise un cd nel vecchio lettore,un album di Jan Garbarek,The Legend Of Seven Dreams,le loro ombre si attorcigliavano sulle note di quel magico sassofono,danzando nell'armonia del primo sogno appena iniziato;si tolse le scarpe,si girò una sigaretta e si sdraiò sul tatami,verso lo specchio dove poteva vedere riflessa la sagoma di lei,tagliata dalla luce tremula delle candele,si dondolava sinuosa,come in un rito tribale,intanto dalle casse fluiva senza fretta,riempiendo lo studio,la musica del secondo sogno,lui vide il suo corpo muoversi con un ritmo preciso,ballando con le ombre,si era messa di fronte lo specchio e si spogliava lentamente,offrendosi nel dono di uno spettacolo solo per quell'uomo disteso;le sue forme riflesse illuminate a tratti dalle candele si fondevano in una scultura vivente,lui iniziò a muovere le mani come un direttore di orchestra,sdraiato di spalle a lei dirigeva la danza di quelle forme perfette,scolpendole nell'aria.Salì nuda sul letto,in piedi davanti lo specchio,la faccia di lui fra le caviglie,poteva guardarla dal basso e di fronte e da dietro in una magica visione tridimensionale,lei si muoveva felina,cavalcando gli assoli di sax,con i seni mossi dalle tablas indiane,mentre con le braccia e le mani disegnava meravigliose promesse nell'aria satura di eros e di magia,lui li sotto era ormai ostaggio di quell'energia così sensuale erotica e sacra allo stesso tempo,in grado di umiliare il suo male,rapito chiuse gli occhi,stupendosi di continuare a vederla con le palpebre serrate dal desiderio,era come se i suoi sensi si erano irrimediabilmente confusi,sentiva con gli occhi,vedeva col naso e la sua pelle assorbiva l'odore di lei fuso nelle note della musica e dell'incenso,fù un momento interminabile,lungo tutto una vita.
Riaprì gli occhi con un fastidio di luce che storpiata dalla plastica della maschera ad ossigeno riportava al suo sguardo,cruda come carne di agnello su un'ara sacrificale,la sua realtà di vita artificiale,tubi e flebo e macchine infernali,tutta quella stupida tecnologia che contendeva il tempo al destino,sfidando Dio sul campo della vita e della morte,lo stridio improvviso di una delle diaboliche macchine lo svegliò completamente violentando il suo idillio sprofondato nel sogno,giusto in tempo per scorgere ai piedi del suo letto,confusa nella nebbia del suo ultimo viaggio,non più nuda,ma con un bianco grembiule,la danzatrice sensuale del suo lungo letargo,le sorrise nell'angolo amaro della bocca secca impastata di sabbia,salutandola teneramente insieme alla sua vita che volava via,fuori da quella banale stanza di ospedale.

giovedì 27 settembre 2007

Il sogno di un incontro(Parte Prima)


Ciao,le disse,cercando di ammorbidire le labbra tese,indurite dall'emozione di quell'incontro improvviso,ciao...rispose lei,abbassando lo sguardo,il corpo muto,disciplinato a soffocare qualunque espressione,lui fece un passo indietro per inquadrarla tutta con lo sguardo,era lei,il suo vecchio tormento;non era più bella ne' più affascinante ne' più vecchia,era semplicemente lei,protesa in avanti,oltre l'approssimazione dei suoi sentimenti e la confusione della sua inconcludente vita di artista,non poté fare a meno di pensare al prima,a quel prima dove lui era la sua aria,quel prima dove lei rimaneva a bocca aperta,incantata, ad aspettare la conclusione delle sue teorie,ammaliata dalla sua arte,docile e innamorata,come una tigre addomesticata,una porta spalancata nel labirinto del piacere.
Quella pausa a lei sembrò troppo lunga,alzò gli occhi fieri e freddamente gli chiese...come stai?un sibilo nelle sue orecchie...come stai..come stai,fece un tonfo tornando al suo presente così poco sicuro,alla sua vita coi cantieri aperti,lavori in corso mai finiti,la sua vita perennemente in bilico sulla corda tesa dei suoi assurdi desideri,chiusa nella trappola del suo segreto,celato nelle cellule del suo sangue che come formiche impazzite correvano per tutto il suo organismo,rosicchiando il tempo necessario a finire qualsiasi progetto.Aveva rinunciato a combattere,ma la sua non era una resa incondizionata al male che lo spegneva,anzi ne era divenuto amico,era il suo ultimo compagno di viaggio,a lui confidava i suoi sogni,germogli di fiori mai sbocciati sui rami ancora verdi dei suoi ricordi,viaggiando insieme verso un dove sempre più confuso che incrociava la traiettoria di un quando invece sempre più vicino e concreto.
Lei avvertì un tremore nel silenzio di quell'uomo che ricordava aspro come una scogliera della Galizia, folle come le sue maree,duro come una montagna di granito che non era mai riuscita a scalare per intero e gli chiese ancora,stavolta con dolcezza...come stai? e nel dirlo si avvicinò sfiorandogli un braccio e si sorprese nel sentire la poca consistenza della carne e solo allora notò quei vestiti troppo grandi,la postura goffa di un clown fuggito da chissà quale circo,lui era vestito come cinque anni prima,sembrava uscito da una diabolica macchina del tempo,con la differenza che quei panni prima riempiti da un uomo forte e fiero ora sembravano cenci che a malapena coprivano pietosi il terribile segreto di quella rara e strana malattia capace di mangiarsi un uomo mentre vive...bene...bene sibilò,e stavolta fù lui ad abbassare gli occhi,vergognandosi di una bugia così stupida e leggera da volare via dalle labbra come una farfalla in primavera.
Ci fù il silenzio e per un attimo anche la città parve fermarsi,come sospesa, rispettando quel momento,un guitto col suo violino percepì quell'emozione nel suo animo di artista di strada e rimase col suo archetto a mezz'aria,una manciata di secondi appena,poi insieme alla strada riprese il suo scorrere,suonando una stupida marcetta tzigana per strappare qualche centesimo alla gente distratta e confusa nella propria esistenza.
Rialzò lo sguardo e incontrò quello di lei,vicino,così vicino da scivolarci dentro,quel languore verde screziato d'oro di quegli strani occhi da gatta,stavolta il silenzio aveva il colore del miele,del grano maturo,si abbracciarono respirandosi a lungo,cercando gli odori appassiti di un amore lontano nel tempo e nello spazio,le braccia di lei riuscivano a cingerlo completamente,lui si accocolò in quell'abbraccio muto,poggiò la faccia sul suo collo,il mento nell'incavo perfetto della sua clavicola,anni prima la faceva impazzire leccando prosecco da quella coppa naturale che ora invece andava riempiendosi con le sue lacrime,gocce gonfie come pioggia estiva in un campo,rivoli salati scendevano dal collo fin su quelle spalle che aveva torturato in passato coi suoi baci,era un pianto sommesso,senza singulti,dignitoso,come se qualcuno avesse aperto il rubinetto della sua anima che colava dagli occhi giù per il mento insieme a tutti i suoi perché e ai suoi vorrei.Lei lo strinse forte a se spalmandoglisi addosso,occupando tutto lo spazio del suo corpo lasciato libero dal dolore del suo male e si stupì di se stessa,dell'amore che quell'uomo assurdo ancora le provocava,nonostante la devastazione del passato,cinque anni,un matrimonio fallito,un paio di analisti ed ora era là in mezzo alla città avvinghiata al suo mostro,che nel male aveva ritrovato i suoi confini umani,una sua collocazione terrena.Non poté non pensare alla loro storia assurda,al loro amore fagocitante che aveva finito per bruciarli entrambi,arsi vivi sul rogo della loro passione,annientati fino all'inevitabile abisso,prigionieri ora della loro necessaria solitudine.
Lei gli allontanò allora il viso e dolcemente asciugò gli occhi con una spallina del suo abito nero lo prese per mano e sempre in silenzio si incamminarono lenti sul marciapiede dove batteva ancora il sole.Non fecero molta strada,lui si fermò di scatto si girò verso di lei che lo guardò persa,impaurita,lui aveva di nuovo nello sguardo quel fuoco antico che aveva imparato a temere,le prese il viso con una mano tornata di nuovo forte e ferma e la baciò,lei era impietrita,riconobbe il suo sapore forte di tabacco e di sale marino,smise di fare resistenza e lentamente si ammorbidì,lasciandosi andare a quelle labbra umide,aprendosi ancora una volta a quel bacio venuto da lontano,dalle pieghe sadiche di un destino che sembrava sorriderle beffardo da dietro una statua del ponte dove si erano fermati,sotto di loro,placido e tronfio come un cardinale,scorreva il vecchio fiume che sembrò trascinarsi via il passato con tutto il suo dolore.Lei sentì il tempo fermarsi,cristallizzarsi in quel momento,in quel bacio che le stava entrando dentro, ancora una volta,scaldandole le vene,facendole pulsare le tempie,lasciando fluire quel dolce veleno restituì quel bacio,stringendolo a se,sentendolo per la prima volta tutto intero anima e corpo,finalmente suo,lui,la peggior specie di uomo,archetipo del più arrogante egoismo,colui che l'aveva schiavizzata per anni col suo malsano potere,colui che l'aveva coinvolta nei più spinti giochi erotici fino a svuotare la sua stessa essenza di donna,asciugando la sua fonte di amore senza spegnerne mai la sete,azzerando la sua esistenza,era lì che la baciava come mai aveva fatto prima,amandola di quell'amore che lei aveva cercato negli anni,ora lo sentiva nelle sue labbra calde,nella sua lingua che giocava nella sua bocca senza prepotenza,con dolcezza,senza la pretesa del possesso,lui aveva finalmente imparato il rispetto.Le si gonfiò il cuore in gola,battendole forte come un adolescente innamorata,il sole intanto piegava ad ovest per la sua planata verso un nuovo giorno,illuminando la speranza dall'altra parte del mondo.

domenica 22 luglio 2007

Racconto capitolotre


La nostra era una famiglia strana,con personaggi eccentrici,come i fratelli di mia madre,un pugile dilettante giocatore d'azzardo e un'altro in perenne ricerca di un'occupazione stabile,cosa che faceva frà i tavolini dell'osteria,quelle bettole di una volta così tanto imitate oggigiorno,ma allora c'era quell'energia ,quell'aria di disincanto tipica delle atmosfere dei romanzi della Duras,dove ognuno era un personaggio e la sua missione sulla terra consisteva nell'interpretarlo nella maniera più credibile possile.
Mio padre era il"maresciallo" con l'animo contadino anzi montanaro,lui veniva dalla dura montagna ai confini con l'Abruzzo,dove aveva sempre fatto il pecoraro,i racconti della sua infanzia ,dei suoi cani e le sue avventure sono tutt'oggi le mie leggende personali,per questo si integrò in una città come Roma molto velocemente,lui aveva sofferto, la fame il freddo e a casa sua non avevano il bagno e mille altre cose che solo un vecchio di campagna oggi potrebbe capire o testimoniare,ancora per poco perchè ormai siamo nel futuro,fra un pò non ci saranno più testimoni diretti del passato non basteranno più neanche i ricordi a scavallare l'argine del tempo,siamo sporti in avanti inesorabilmente,verso un dove sempre più misterioso,dai confini bizzarri che si spostano in avanti ogni volta che ci illudiamo di averli toccati o almeno sfiorati,rendendoci folli e avidi di tempo.
Nonostante abitassimo oramai in città,in un condominio ,mio padre aveva mantenuto certe abitudini,come andare per campi a fare cicoria lavandola in quantità industriali nella vasca da bagno o allevare animaletti come un coniglio o un pollastro sul balcone,insieme ai vasi con le piante di peperoncino,bestiole alle quali noi ci affezionavamo per poi piangerli quando finivano in padella,anche se il fatto più bizzarro , che ricordo come un film surrealista tipo Bunuel, fù quando una sera mio padre rientrò da una gita fuori porta con le sue sorelle,montanare come lui,portandosi dietro una pecora ,sissignori una pecora vera ,alla quale avevano messo un fazzoletto in testa credo per mimetizzarla alla vista dei condomini e trasportandola fino al terzo piano dove abitavamo la legarono per le zampe posteriori allo sciacquone e la scannarono facendo colare il sangue nel water, credo che erano tutti ubriachi,e nonostante la cruenza della scena io non ho un ricordo terribile di quel fatto,anzi fù di una comicità grottesca una specie di festa alla quale infine si aggiunsero i vicini incuriositi dai lazzi ma per nulla scandalizzati,la sola che non prese molto bene la cosa fù mia madre che come potete immaginare faticò non poco a pulire tutto,ma la puzza ci perseguitò per giorni anche perchè mio padre non potendo accendere un fuoco sul terrazzo per ovvie ragioni,prese la pessima abitudine di abbrustolire la carne direttamente sul fornello del gas,impregnando tutto al punto tale che la mia maestra chiamò mia madre per chiederle spiegazioni sui miei giochi tanta era la puzza che avevo nei vestiti,non ho mai saputo le scuse che addusse quella povera donna ma per un pò quel rito della grigliata cessò,per poi riprendere anni dopo con maggiore intesità quando mia madre se ne andò definitamente da casa,ma non fù la pecora a determinare il divorzio almeno non quella pecora spero,perchè comunque non ho più visto mio padre ridere così tanto insieme alle sorelle rievocando ricordi di un'infanzia dura ma vera dove l'uccisione di una bestia assumeva i contorni rituali di una festa pagana di paese in un periodo dove mangiare un pò di carne era un fatto assolutamente eccezionale in un menù ristretto fatto di patate e formaggio quando andava bene,dove gli animali erano parte integrante della famiglia ed erano amati e rispettati, avevano una grande dignità,una loro identità,non come oggi,anonimi pezzi di carne incellofanati ed esposti nei supermercati ,animali allevati e torturati nei lager chiamati "aziende",sacrificati all'altare del grande consumo nel nome del profitto indiscriminato, credo che il morbo che oggi ci minaccia sia solo l'inizio di una ribellione in atto da parte di una natura con la quale ormai siamo incapaci di convivere amandola e rispettandone i tempi.

Racconto capitolodue


Comincio così a scavare coscientemente nel giardino dei miei ricordi...
Pioveva quel giorno,era freddo,all’uscita dell’asilo tutti i bimbi correvano verso le loro mamme, abbracciavano le loro sicurezze con la fiducia inimitabile propria dei cuccioli di qualsiasi razza, io in un angolo sotto un alberetto dello strano giardino di quell’edificio di epoca fascista ,della quale conservava ancora intatta la sinistra durezza e austerità ,cercavo le mie di sicurezze ,aspettavo con lo sguardo di bambi che si affacciassero oltre la fontana, in mezzo al clamore d’infante finalmente libero e allora qualcosa successe,quella mattina venne mio padre a prendermi,ricordo benissimo il suo procedere verso di me goffo e impacciato,tipico di chi cerca di entrare in un ruolo che ancora non conosce,ma il suo sguardo era serio addolorato,io superata la sorpresa di non trovare la mamma,mi accocolai frà le sue braccia,le braccia di un gigante e nel tragitto verso casa venni a sapere che per un lungo periodo quella non era la sola giornata insolita della mia vita,infatti mia madre era in ospedale,o meglio in un “sanatorio”,così venivano chiamati a Roma quei luoghi dove chi aveva malattie respiratorie poteva andare a soggiornare,una specie di succursale del “Forlanini”,dove stava cercando di curare una forma di tubercolosi,regalo della guerra e dei suoi fratelli,che scappando dai campi di prigionia,alla fine del conflitto riportarono questo souvenir in casa,sputantolo in terra insieme a imprecazioni atee di ogni tipo.
Inizia così un periodo difficile che coinvolse tutti,mio padre mia sorella mio fratello e tutti quei parenti che non fecero certo a gara per aiutarci,almeno da quanto è rimasto a me come cronaca confusa di quei tempi.Mio padre,per quanto non fosse oberato di lavoro(faceva il centralinista alla questura centrale),decise di farci ospitare per un periodo dai parenti,così ci ritrovammo in cinque ragazzini a coabitare in una casa vecchissima che era stata costruita intorno alle esigenze delle famiglie che ci abitavano,mia zia e mia nonna con suo marito,un uomo alto due metri,che l'alcool e l'età avevano rincretinito,cosicchè ogni tanto bisognava andarlo a cercare per il quartiere,dove andava girando nudo come un neonato di sessant'anni,invecchiato di colpo,come per un malefico sortilegio, suscitando l'ilarità generale e la nostra vergogna.
Di quel tempo la sintesi che onestamente mi sento di dare è di approsimazione totale,dei sentimenti,del cibo,dei giochi e delle sporadiche visite di mia madre,che ricordo più per le cioccolate che portava che altro,e altro è tutto quello di cui i bambini hanno bisogno per strutturare un codice identificativo per il bene e per il male.
Per l'estate che si stava avvicinando ebbero un'idea che a loro parve a dir poco grandiosa,il ministero offriva un soggiorno gratuito alle famiglie meno abbienti,cosi io e mio fratello partimmo per lidi lontani al sud,dove facevamo il bagno al mare in cinquanta ragazzini in una struttura simile ad un ring da pugile piantato in mezzo al mare,dove praticamente in piedi con la possibilità di movimento solamente verticale,vidi qualcosa di simile vent'anni dopo circa ,in India lungo il Gange in occasione del kumba mela ,festa hindi in cui il sopraffollamento ricorda da vicino Dante,anche a chi non lo ha mai studiato.Comunque io e mio fratello tornammo da quella esprienza così forgiati che quando finivamo di mangiare ci alzavamo di scatto a riporre le gavette nel lavatoio,fù credo in quel periodo che maturò in me il germe dell'intolleranza totale verso tutto ciò che è costituito,che è regola che è inquadramento,tant'è vero che tutt'oggi faccio un enorme fatica a mantenere un rapporto almeno di cortesia verso le istituzioni e i loro legacci,anche se alla fine io sguazzo nello stagno della vita come se non meglio di chiunque altro membro di questa civiltà illuminata.

Racconto capitolouno


..Ritardo...così mi battezzò il ginecologo,quel giorno forse di giugno,un
paio di mesi circa ,dopo il mio concepimento,Ogino(knaus)replicò mia madre quando ormai era troppo tardi,con un moto di stizza.
Me ne stavo lì,aggrappato a quelle umide pareti dove anni prima passarono i miei fratelli,dove,e questo lo seppi molto più tardi,altri ovetti come me furono strappati via da selvaggi ferri da lana imbevuti d'aceto,metodo sembra molto in voga alla fine degli anni cinquanta,per controllare in modo autonomo,anche se un pò tribale le cosidette nascite indesiderate...io ebbi culo,grazie all'approsimazione di quel ginecologo ora sono qui a iniziare una storia...la mia.

Potrei come fanno molti,inventare,magari tessendo la trama del racconto con la realtà oggettiva dei tempi vissuti,a me bastano i miei
ricordi,l'assurdità splendida della mia esistenza fino ad ora,per riempire pagine e pagine ,anche se a volte io stesso stento a credermi,ma la mia lucidità,che è stata per anni la mia croce e la mia condanna,mi dà la fiducia e la forza di andare a scavare in quei cimiteri dell'anima,parco giochi di quasi tutti gli psicoterapeuti Junghiani,Ghestaltiani ecc,in quei luoghi dove hanno origine tutte le paure,concimate dalle esperienze umane.
Ricordare,tutto ,le cose belle e le più orripilanti,ricordarsi di sè,della
proppria umanità e della propria appartenenza divina,senza negare,affinchè lo spessore della nostra entità sia un blocco unico,senza negarsi per evitare una continua frammentazione che ci sparpaglia sui sentieri della vita,dove certo non mancheranno mai i corvi pronti a cibarsi di tutto quello che nel tempo perdiamo.
Un ritardo disse...fatto stà che all'alba del sedicesimo giorno di febbraio venni fuori io,con una tale foga che se non c'erano le sbarre del letto sarei finito in terra sul pavimento della sala doglie della clinica
Guarnieri a Centocelle ,mitico quartiere dell'estrema periferia romana, che all'epoca era solo campagna dove fare un pò di cicoria ,dove gli ultimi pecorari resistevano, ai bordi della via Casilina con le loro bestiole all'accanimento dei rampanti palazzinari che cementificavano
tutto,sentimenti compresi ,nel nome di quel benessere che personalmente non ho mai conosciuto e come me penso molti altri disadattati. Personaggi sfigati nati in'ibride periferie ,disorientati dalla voglia forsennata di benessere di quella generazione che ci aveva partorito,quei figli della guerra,poveri padri orfani di pace,perennemente affamati,bulimici d'amore a noi ci
ingozzavano di cibo e di senso del dovere.